Le fate di Cottingley: potenza delle immagini (parte prima). Oggi parliamo di un episodio storico, narrato molte volte, un fake che ha fatto scuola.
E’ il caso delle fate di Cottingley, storia alla quale abboccò clamorosamente anche sir Arthur Conan Doyle, il padre di Sherlock Holmes, che portò la storia alla ribalta mediatica.
Siamo nel 1917 a Bradford, Inghilterra. Elsie Wright e Frances Griffiths sono cugine , hanno sedici e dieci anni, e sembrano ancora innoque e sincere bambine. Il padre di Elsie è ingegnere elettrico con la passione per la fotografia. Elsie prende di nascosto la macchina fotografica e qualche lastra, va con la cuginetta nel giardino di casa e scatta delle foto.
Pochi giorni dopo il padre sviluppa le lastre. Nelle immagini sua figlia Elsie e la cugina stanno giocando con delle piccole fate volanti.
Il primo bivio della storia delle fate di Cottingley
Ecco il primo bivio della storia. Il padre prende la figlia e le dice chiaramente di non giocare più con la sua macchina fotografica, soprattutto per fare certi stupidi fotomontaggi usciti male.
La madre invece, Polly, vede le foto e ci crede. Sua figlia e la cuginetta giocano veramente con le fate nel loro giardino di casa (mi immagino la faccia del marito a questo punto…).
Le due ragazze hanno trovato la prima vittima. Il gioco funziona. Un anno dopo mandano una lettera a un’amica in Africa con dentro una foto simile, descrivendo il loro rapporto cordiale con questi esseri fatati. Nel frattempo la madre diventa un’invasata.
Nel 1919 Polly si presenta a un incontro della Theosophical Society di Bradford spiegando che aveva prove e documenti sul mondo delle fate. La dichiarazione non sfugge al ‘responsabile di sezione’, Mr Gardner, che dall’alto della sua funzione di… di… comunque autentica ufficialmente le foto a nome della Theosophical Society.
Arriva Conan Doyle e la fama
Le fotografie vengono pubblicate, le copie girano per passamano e sempre più persone non dubitano della loro veridicità. Arrivano anche a Conan Doyle che, a differenza dei suoi racconti, si rivela molto poco analitico e deduttivo sulla situazione. Ci casca con tutto se stesso, rassicurato dall’amicizia con Mr Gardner, dal quale riceve solo rassicurazione di autenticità.
E’ a questo punto, grazie allo scrittore, che le foto fanno un balzo di popolarità. Doyle deve scrivere in quei giorni del 1920 per lo Strand Magazine un articolo sugli esseri fantastici e sulla loro reale esistenza. Inizia a informarsi, come farebbe Sherlock ma, a differenza del suo personaggio, lui ha proprio voglia di crederci.
Per mettere in dubbio la storia si rivolge a una sensitiva che, però, conferma. Poi fa fare uno studio anatomico a degli ‘esperti di fate’, per confermare che non siano ballerini travestiti… anche loro confermano che sono fate. Infine va a conoscere le ragazze e si fida. Non mette in discussione le loro prove, chiede solo cosa succede quando fotografano, come sono le fate, cosa dicono… (e magari non chiede un parere al padre di Elsie, tenuto prudentemente in un’altra stanza). Ormai si fida.
Fa uscire l’articolo con tanto di foto ed è un successo di vendite.
Le fate di Cottingley: potenza delle immagini (parte prima)
Da questa prima parte del racconto, che continuerà nel prossimo articolo, possiamo già ottenere informazioni molto interessanti. Abbiamo parlato settimana scorsa dei corpi di alieni fake presentati al Governo Messicano. Anche in quel caso le prove erano “altamente certificate”.
Resta sempre da chiedersi, in casi come questi, non tanto chi le abbia certificate ma con che metodo l’abbia fatto. In questo caso Mr Gardner, con la sua creduloneria/furbizia, ha certificato le foto per l’opinione pubblica e per Doyle. Dopo di lui l’autenticità del reperto poteva essere messa in discussione solo per difetto, non più come dubbio alla base.
Spicca poi l’importanza del medium visivo come prova. Oggi noi testiamo la troppa facilità nella manipolazione digitale dell’immagine, eppure poco sembra essere cambiato. L’immagine è prima di tutto una finestra verso il nostro intimo. Questo non cambierà. Quando osserviamo un’immagine cerchiamo nelle cose un ordine che rispecchi le nostre emozioni, idee, credulonerie. Anche per questo alcune scene ci attraggono più di altre. Non siamo mai osservatori passivi, e mentre noi guardiamo l’immagine dobbiamo sempre ricordare che anche l’immagine guarda noi, ci studia e scruta. Oggi più che mai, con foto frutto di complessi algoritmi che prendono nota di tutto, non scordiamolo.