L’arte pubblica è la nuova arte di corte? “non tutta”, potrei rispondere subito. E’ appena stato presentato il progetto artistico promosso da AXA IM Alts per intervenire grazie all’arte contemporanea negli e sugli spazi dell’ex esattoria civica di Milano, diventata oggi Vetra Building. Gli interventi dovrebbero essere solo l’inizio di un ampio processo di rigenerazione urbana che interesserà anche la piazza e il parco limitrofi.
Già nel 2021 era stata inaugurata la scultura a neon di Patrick Tuttofuoco, “X”, davanti a sindaco e giunta in gran sfoggio, e oggi anche il passaggio pedonale da piazza Vetra a via Wittgens è stato ‘firmato’ dalla curatela di Helga Marsala, grazie all’opera del collettivo di sperimentazione tipografica Cabaret Typographie, dal titolo tratto da Saba “Invece di stelle ogni sera si accendono parole”.
I proclami delle autorità li conosciamo bene
Per chi stesse leggendo, non fosse di Milano e comunque fosse riuscito ad arrivare fino a questo punto, mi scuso. Il tutto era molto circostanziato e in sé la notizia non credo interessi fuori dalla zona C.
Però ci dà lo spunto di pensare alle frasi che, puntualmente e anche in questa circostanza, escono dalle bocche delle autorità nel presentare opere in spazi pubblici. Le parole d’ordine credo le conosciate bene anche voi, se mai siete stati a una di queste occasioni mondane: “riqualificazione”, “partecipazione”, “valore dal basso”, “collettività”, “coesione”, “coinvolgimento”.
Se poi ci sono le ‘autorità’ presenti (mi si consenta questa narrazione) il più delle volte siamo proprio in centro alle città, dove capitali si sono mossi precedentemente, il rinnovamento ha già avuto luogo, e l’apposizione di opere d’arte sembra essere quasi un bollo di certificazione della riqualificazione ormai avvenuta (è questo anche il caso milanese appena accennato).
Ciò nonostante i rappresentanti del pubblico si lanciano sempre in proclami che avvertono che “questo è solo un inizio” e che, fondamentalmente, ora che le zone bene della città sono ancora più belle si passerà a riqualificare le “zone popolari“.
L’arte pubblica è la nuova arte di corte?
Insomma, ormai avrete capito che questa mia rubrica del sabato sull’arte, fin troppo spesso, parla del peggiore dei mali dell’arte contemporanea: l’ipocrisia, il perbenismo, lo scegliere sempre la parte giusta, le belle parole e le parole belle.
“Partecipazione“, in bocca a un’autorità, vuole dire che se poi non se ne fa più niente è colpa di chi non ha partecipato. “Riqualificazione” vuole dire cercare di estrarre visibilità e voti da zone ancora senza bandiera. “Valore dal basso” indica che lavorerà qualcuno che non deve essere pagato. “Collettività” è uno slogan per chi ancora ci crede. “Coesione” e “coinvolgimento” è l’aspettativa che venga riconosciuta a una sola parte politica l’attività svolta.
Vogliamo poi parlare davvero di come queste azioni si diffondono nelle “zone popolari”? In quei luoghi dei quali l’amministrazione eletta si disinteressa lavorano centri, associazioni, fondazioni, artisti e gruppi che lottano da soli il 99% delle volte. Mentre queste realtà affondano, le autorità regalano, a chi già ha, ulteriori lussi (l’arte è un lusso, per chi se lo stesse chiedendo). E ogni volta che questo regalo avviene è ammantato come “nuovo inizio”, giustificato socialmente in favore di chi non ne viene neanche a conoscenza.
Ma cos’è quest’arte che fa bene il suo lavoro ma non manda a quel paese chi cerca di pervertirla? Arte di corte, senza più le parrucche e il neo da cicisbei, con modi più accattivanti e anarchici, vestita da rivoluzionaria. Lo diventa non appena lascia che le autorità prendano quel palco che lei ha preparato, che dicano le solite cose facendo finta di non capirle.