‘Il colosso’ di Goya: guida a un terrore contemporaneo. ‘Il colosso’ è una delle opere più terribili della storia dell’arte. Svela la paura più sincera e paralizzante del genere umano. E’ forse la prima tappa di un percorso di rappresentazioni che porta a distopie dell’immaginario contemporaneo che, direttamente, ne ricalcano l’estetica.
Autore e data del Colosso
Parliamo per prima cosa dell’opera nello specifico. Il Colosso (El Coloso) è stato a lungo ritenuto uno dei quadri più famosi di Francisco José de Goya y Lucientes, o semplicemente ‘Goya’. Le pennellate larghe e grasse, i colori ombrosi e di terra rossa richiamano l’ultimo periodo del pittore spagnolo, quello che culminò nelle ‘Pitture Nere’. Il soggetto stesso, a un primo sguardo, potrebbe anche riprendere il tema molto caro a Francisco della invasione Napoleonica della Spagna.
L’opera è a olio su tela, alta 1.60m e larga 1.05m. La data di esecuzione dovrebbe essere il 1808, sicuramente finita nel 1812. La prima menzione è nell’elenco di beni che il pittore lascia al figlio prediletto Javier. Questo essere parte dell’eredità lo fa diventare automaticamente un quadro autografo di Goya, ma l’elenco parla chiaro. Non è inserito nelle opere del pittore, non è nell’elenco degli autografi, ma in quello dei beni accumulati. Anche delle iniziali a modi firma in basso a sinistra (“AJ“) collocano il quadro nelle mani di Asensio Julià, allievo di Francisco, forse vero autore dell’opera.
Ma i dubbi rimangono anche su questo nome: molti critici tuttora vedono stilemi estranei all’allievo, e preferiscono valutare il quadro come fatto da un non precisabile imitatore o ammiratore di Goya.
Alla morte di Francisco, nel 1828, il quadro passa quindi al figlio Javier, che sfrutta la presunzione di autografia per venderlo a collezionisti che, man mano, lo faranno arrivare nel 1931 a Pedro Fernández Durán, che lo dona a sua volta al Museo del Prado, dove oggi è esposto.
Tema del Colosso di Goya
Ciò che vediamo è un immenso colosso, che si innalza e sovrasta l’orizzonte, facendo fuggire interi popoli. Sul suo percorso e davanti a lui la natura è bruciata, distrutta, resa inabitabile. Un paese, che quasi sparisce nella stazza colossale, è una dimora inutile, un rifugio che non lo è. Tutto è morte intorno al colosso e bestie, carri, cavalieri e colonne di profughi se ne allontanano. Solo un asino sembra non dare importanza all’inevitabile fine del tutto.
Una prima spiegazione del tema del quadro pone le sue radici proprio nella improbabile attribuzione a Francisco Goya. Per anni il pittore descrisse le tragedie della guerra, dell’invasione napoleonica della Spagna, e il 1808 è proprio l’anno di inizio della sanguinosa guerra d’indipendenza spagnola. Il colosso non sarebbe altro che la guerra materializzata che si muove sulla terra, un titano diventato divinità grazie ai lumi settecenteschi.
Altra chiave di lettura, a dire il vero troppo moderna, identifica nel gigante furioso l’uomo che distrugge la natura, che si impone con un’idea assolutista sulla terra. Infine vi è la possibilità che il colosso sia il nostro difensore. Un nemico che non riusciamo a vedere, al di là delle colline, affronta il colosso che lascia al popolo le spalle e il tempo di fuggire. Questa ultima ipotesi sarebbe supportata dal poema di Juan Bautista Arriaza, Profecía del Pirineo, del 1808. Il libro narra di un colosso di statura e forza straordinarie, difensore della Spagna contro le invasioni.
‘Il colosso’ di Goya: guida a un terrore contemporaneo
Non credo ci sarà mai dato sapere chi sia il vero autore e, di conseguenza, quale fosse il sottotesto della composizione. Rimane però un’opera terribile. La sua eredità la vediamo anche oggi.
Sono due i caratteri che più mi hanno sempre atterrito nella scena rappresentata. Per prima cosa, la comparsa del colosso è improvvisa. Una così grande distruzione, una morte gigantesca che cammina su colonne di gambe, sarebbe visibile da lontano, sarebbe annunciata. E invece il paese sembra preso di sorpresa, come se levandosi il mattino fosse senza preavviso coperto dall’ombra di questo unico corpo apocalittico. Il mostro c’è, ed è parte del suo essere mostro comparire già sopra le nostre teste, catapultare una generazione nel baratro della paura. Il mostro è ciò che ci fa diventare ‘troppo tardi’. Uno scoppio che ha già mietuto vittime ci ha fatto scappare.
Il secondo carattere è ancora più terribile ai miei occhi. La stazza è talmente imponente che l’interesse del mostro non è verso di noi. Non siamo di fronte a un nostro nemico, a un nostro opponente che vuole distruggere noi. Siamo solo spettatori di una forza che considera il genere umano tutto come un momento di macello passeggero. Siamo accantonati a lato di ‘interessi’ maggiori al nostro destino, e come formiche accatastati e distrutti incidentalmente. L’obiettivo del colosso è altro, ma sappiamo che implica la nostra distruzione. Quasi non vediamo cattiveria in lui (anche per questo si è potuto ipotizzare fosse nostro difensore: non ci sta cacciando, o inseguendo, non è diabolico o crudele, è semplicemente di passaggio, mostrandoci la schiena, non pensando minimamente a difendersi da noi).
Il suo totale disinteresse verso di noi è il destino di distruzione più difficile e terrificante da accettare. Macellati per scopi che non capiamo, anzi, pietrificati dalla intima certezza che non ci siano scopi nella nostra distruzione.
L’eredità del Colosso di Goya
Direttamente da questo quadro si possono citare almeno due opere contemporanee che ne hanno tratto tale profilo di terrore.
Da una parte c’è il filo diretto con L’attacco dei giganti (Attack on Titan in inglese, 進撃の巨人Shingeki no kyojin), manga di genere dark fantasy post apocalittico, scritto e disegnato da Hajime Isayama. Questo manga, diventato anime di successo planetario, pietrifica gli spettatori non abituati al genere. Una popolazione di umani stretta all’interno di mura attaccate da giganti. Il carattere più terribile dei giganti, che ha reso l’opera indimenticabile, è che non sono nemici del genere umano, ma solo giganteschi colossi che hanno fame. Si comportano come bambini davanti a una scatola di caramelle quando invadono le città, sgranocchiando umani e dissolvendo ogni speranza di individualità nella morte. Non hanno piani e strategie, la specie umana non riesce a capire cosa pensino, ma si presenta come momento incidentale in qualcosa di caotico ai suoi occhi. Ogni morte diventa anonima spazzando via l’unicità dell’esperienza di vita, rendendo impossibile recuperare un senso.
Penso poi che chi abbia visto Cloverfield, un film del 2008 che al botteghino ha avuto poco successo riscattandosi con il passaparola, avrà avuto sensazioni simili. Un mostro imperversa per la città di New York. I suoi movimenti sono dissennati, non ha interesse ad essere ripreso dalla telecamera della regia, non ha interesse alcuno per lo sguardo dello spettatore come per quello delle vittime. Nella sua missione di demolire la città i protagonisti non sono più tali, ma solo insetti che non capiscono e scappano. Intelletto e sguardo, in questa pellicola fusi insieme, non riescono a comprendere un’unità, un nemico, una unicità alla quale contrapporre la propria. Una forza bruta talmente disinteressata che annichilisce la speranza della morte individuale, del ricordo personale, anche del sacrificio.
Il Colosso di Goya come eredità per il terrore contemporaneo
Questa tipologia di terrore è quanto mai presente nel mondo contemporaneo. Ci atterrisce l’idea di un male che non guarda direttamente a noi come nemico, ma semplicemente non calcola la nostra distruzione tra le sue azioni. Davanti a questo terrore è naturale inventarci nemici più palpabili, più identificabili, che diano alla nostra rovina un rinnovato senso di vissuto individuale, nemici che ci calcolino come bersagli, essere ancora parte di un piano altrui.
Se così non facessimo dovremmo considerare l’esistenza di livelli superiori, dove la nostra distruzione non è più un male, la morale diventa uno strumento fallace e l’individualità uno scherzo dell’evoluzione.
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